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L’IMPIEGO DI CONDROPROTTETTORI COME TERAPIA DI MANTENIMENTO DOPO CICLO INFILTRATIVO CON ACIDO IALURONICO NEL PAZIENTE CON ARTROSI AL GINOCCHIO

L’osteoartrosi è il disturbo articolare più comune degli adulti in tutto il mondo. I cambiamenti radiografici dell’osteoartrosi si verificano nella maggior parte delle persone a partire dai 65 anni e sono presenti in oltre l’80% delle persone di età superiore ai 75 anni [1].

L’artrosi al ginocchio (gonartrosi) più specificatamente, è la tipologia più frequente di artrosi raggiungendo una prevalenza del 40% nella fascia di età compresa tra i 70 ed i 74 anni [2].

Per definizione la gonartrosi è l’infiammazione cronica del ginocchio, risultante dalla degenerazione degli strati di cartilagine appartenenti all’articolazione in questione e dal conseguente anomalo sfregamento del femore sulla tibia. Tra le varie strutture che compongono l’articolazione del ginocchio, la cartilagine articolare ialina è quindi il bersaglio principale degli influssi dannosi che causano l’artrosi e la struttura in cui inizia il processo patologico [3]

L’equilibrio dinamico tra la formazione continua e la disgregazione della matrice cartilaginea è regolato da un’interazione di influenze anaboliche (ad esempio: fattori di crescita simili all’insulina [IGF] I e II) e influenze cataboliche (ad esempio: interleuchina-1, fattore di necrosi tumorale [TNF] alfa e proteinasi). In misura limitata, questi meccanismi possono eliminare o compensare gli influssi dannosi che causano l’artrosi stimolando e modificando l’attività metabolica dei condrociti. Quando queste influenze dannose superano la capacità di compensazione del sistema, tuttavia, si verifica il degrado della matrice; questo è il primo passo nello sviluppo dell’osteoartrosi, che può progredire fino a una malattia avanzata [3].

Perché la cartilagine vada incontro ad un processo degenerativo non è ancora ben compreso ma, sono attualmente noti diversi fattori di rischio associati alla patologia. La gonartrosi è frutto, infatti, di una combinazione di fattori causalie tra questi, meritano sicuramente una citazione: l’età avanzata, l’eccessivo peso corporeo (obesità), i difetti di disallineamento del ginocchio (ginocchio varo o valgo), precedenti traumi gravi (rottura della tibia, perone o femore) piuttosto che i piccoli traumi ripetuti nel tempo (attività sportiva intensa e sollevamento di pesi) e la predisposizione genetica [4].

Riferendoci quindi ad una patologia potenzialmente invalidante, gli obiettivi primari stabiliti per la gestione medica dei pazienti gonartrosici sono il controllo del dolore e il miglioramento della funzionalità e della qualità della vita correlata alla salute, evitando gli effetti farmacologici tossici [5]. I due approcci raccomandati dall’ American Academy of Orthopaedic Surgeons prevedono nello specifico, una terapia farmacologica associata ad un intervento non farmacologico (fisioterapia, terapia occupazionale e perdita di peso) [5].

Gli agenti orali e nello specifico i FANS sono considerati il trattamento standard per alleviare il dolore articolare. Sfortunatamente, molti pazienti non tollerano questa classe di farmaci o soffrono di gravi effetti collaterali ad essi associati, principalmente ulcerazioni e sanguinamenti gastrointestinali [6-8].

È proprio per questo che attualmente, esiste un approccio alternativo rappresentato dalla terapia intra-articolare con acido ialuronico che è dimostrato comporti un sollievo dal dolore paragonabile a quello dei FANS [9-11].

È noto da molti anni che il liquido sinoviale delle articolazioni osteoartrosiche è inferiore in elasticità e viscosità rispetto a quello delle articolazioni normali [12, 13]. Questa diminuzione delle proprietà reologiche del liquido sinoviale deriva dalla riduzione delle dimensioni molecolari e della concentrazione di acido ialuronico nel liquido sinoviale [13]. Questo fenomeno ha portato all’introduzione della terapia di viscosupplementazione [14], che consiste nell’iniezione di acido ialuronico esogeno o suoi derivati nel tentativo di riportare l’elasticità e la viscosità del liquido sinoviale a livelli normali o superiori [15].

Particolarmente utilizzata in Italia ed in Giappone, ha dimostrato di essere un trattamento sicuro dell’osteoartrosi del ginocchio [16] ma, in qualsiasi caso, non una cura definitiva della patologia.

Va ricordato inoltre, che questo tipo di trattamento risulta non essere efficace sempre allo stesso modo. Ad esempio, un processo infiammatorio in corso riduce notevolmente l’effetto della terapia, in quanto, la produzione di enzimi litici, degrada ulteriormente l’articolazione [17].

Infine, va considerato che la velocità di assorbimento dell’organismo influisce sull’attenuazione dei sintomi: l’effetto delle infiltrazioni di acido ialuronico, generalmente, riesce ad essere apprezzato dopo alcuni mesi dall’ultima seduta e dopo un mese nei casi migliori.

In considerazione dei limiti esposti, al fine di sostenere il trattamento infiltrativo, è largamente utilizzata una concomitante “terapia di fondo” che prevede l’utilizzo di nutraceutici ad azione condroprotettrice e più nello specifico l’integrazione con le cosiddette SYSADOA (SYmptomatic Slow-Acting Drugs), piccole molecole aventi azione antinfiammatoria e ricostituente della matrice cartilaginea [18].

Appartengono a questa classe di prodotti: la N-Acetil D-Glucosamina e la Condroitina Solfato.

La N-Acetil-D-Glucosamina (NAG) è un aminozucchero precursore della sintesi dei Glicosaminoglicani (GAGs), i principali costituenti della cartilagine articolare. Così come le altre forme di Glucosammina presenti sul mercato (Glucosammina solfato e Glucosammina cloridrato), la NAG è in grado di stimolare la sintesi dei principali costituenti della matrice cartilaginea (GAGs, PGs e Acido ialuronico), fornendo nutrimento e sostegno trofico all’articolazione. 

La Condroitina Solfato invece, rappresenta il GAG più abbondante a livello della cartilagine articolare ed il maggiore responsabile della resistenza alla compressione. L’impoverimento in Condroitin Solfato della cartilagine articolare rappresenta una tra le principali cause di osteoartrosi del ginocchio ed è per questo che la OARSI (OsteoArthritisResearch Society International) raccomanda la condroitina solfato come il secondo rimedio più efficace nei casi di osteoartrosi moderata.

Tali componenti sono spesso utilizzate in associazione questo perché, diversi studi clinici hanno dimostrato che la combinazione di Glucosamina e Condroitin Solfato abbia un’efficacia superiore nella gestione dell’artrosi al ginocchio [19-23] rispetto all’utilizzo della singola molecola.

Inoltre, in diversi studi clinici, la Glucosamina e la Condroitina, sono state associate ad altri principi attivi naturali che hanno prodotto risultati promettenti nel trattamento delle patologie su base infiammatoria: si tratta del Metilsulfonilmetano (MSM) e della Boswellia serrata (BS) [24-26].

Il Metilsulfonilmetano (MSM) rappresenta la forma naturale dello zolfo organico [27]. L’azione protettiva dell’MSM sulla cartilagine articolare, si deve al ruolo svolto dallo zolfo nella sintesi del Collagene; la presenza dello zolfo serve infatti a garantire la formazione dei legami disolfuro tra le triple eliche del Procollagene, promuovendo la formazione dei tessuti elastici quali appunto la cartilagine articolare. Il Metilsulfonilmetano inibisce inoltre l’attivazione delle metalloproteasi (MMPs) ed è in grado di migliorare la permeabilità cellulare, permettendo alle sostanze dannose di essere eliminate più facilmente e prevenendo così un possibile aumento della pressione intracellulare che è causa di dolore e infiammazione. Il MSM inibisce infine la trasmissione dell’impulso doloroso attraverso le fibre nervose di tipo C e svolge una discreta azione antispasmodica, riducendo l’incidenza di dolore e crampi muscolari [28, 29].

L’azione del MSM può essere potenziata dalla combinazione con la Boswellia serrata. La gommoresina di questa pianta, infatti, è ricca di numerosi principi attivi, tra cui spiccano per importanza gli Acidi cheto-boswellici (AKBA) [30] i quali, sono in grado di inibire selettivamente l’enzima 5-Lipossigenasi, coinvolto nella biosintesi di importanti mediatori del processo infiammatorio: i Leucotrieni. La selettività di inibizione relativa alla sola Lipossigenasi e non della Ciclossigenasi, rende l’azione antinfiammatoria degli Acidi Boswellici particolarmente interessante ed utile ai fini terapeutici, in quanto non determina in nessun caso gastrolesività (al contrario dei FANS). Le proprietà della Boswellia Serrata sono ampiamente riconosciute in letteratura, al punto che lo stesso Ministero della Salute ha rilasciato per questa sostanza il seguente Claim Ministeriale: “La Boswellia Serrata Sostiene la Funzionalità Articolare e Contrasta gli Stati di Tensione localizzati” [31-34].

In conclusione, l’approccio “one drug, one target, one disease” ha rappresentato a lungo l’approccio farmaceutico convenzionale per la gestione delle osteoartrosi del ginocchio. Nell’ultimo decennio, anche con l’affermarsi della Fitomedicina nella pratica clinica quotidiana, questo modello si è gradualmente spostato verso l’adozione di terapie combinate. 

È da questo concetto che nasce l’idea di associazione di viscosupplementazione e condroprotezione al fine di offrire vantaggi maggiori nel management terapeutico del paziente gonartrosico.

L’approccio in questione, presenta come abbiamo potuto indagare, numerose e promettenti basi scientifiche si attendono però, nuove evidenze fondate su studi clinici randomizzati e controllati al fine di confermare con maggiore vigore, i già ampi dati presenti in letteratura.

Dott. Vincenzo Secondulfo  – Specialista in Ortopedia e Traumatologia

BIBLIOGRAFIA

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STUDIO OSSERVAZIONALE: Impiego di una combinazione di L-Citrullina, Betaina e Fosfoserina nel miglioramento della qualità spermatica in maschi adulti affetti da oligospermia lieve

RAZIONALE:

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riconosce nell’Infertilità un problema di salute pubblica globale. Si tratta di una condizione che interessa circa il 15% della popolazione mondiale, di cui circa la metà dei casi è riconducibile al sesso maschile [1]. Questo preoccupante calo della fertilità maschile è dovuto a una progressiva diminuzione della concentrazione di spermatozoi nel liquido seminale, che nella popolazione di Nord America, Europa, Australia e Nuova Zelanda dal 1973 in poi, è diminuita con una media dell’1,4%/anno, con un calo complessivo che ha superato il 50-60% [2]. Al calo del numero totale e della concentrazione degli spermatozoi si associano spesso anche un peggioramento generale della qualità spermatica (motilità e morfologia) e altre disfunzioni della sfera sessuale maschile come l’incapacità di raggiungere e mantenere l’erezione e la ridotta capacità di eiaculare durante l’orgasmo.

Questi dati suggeriscono un forte calo della salute riproduttiva maschile, con implicazioni cruciali per la riproduzione umana e la perpetuazione della specie. È quindi urgente una ricerca volta a svelare le cause e le implicazioni di questo declino, oltre che le possibili soluzioni. 

Lo studio dei fattori modificabili che influenzano la fertilità, come la dieta, lo stress, il tabagismo, l’uso/abuso di alcol e droghe è di grande importanza clinica per comprendere il problema. In effetti, i risultati di diversi studi osservazionali suggeriscono che l’adozione di uno stile di vita sano e l’assunzione di determinati nutrienti sia attraverso la dieta sia in forma concentrata con la supplementazione possano migliorare i parametri di qualità dello sperma maschile e le prestazioni sessuali dell’uomo, esercitando effetti benefici sulla fertilità in generale [3].

L’Arginina è un nutriente utilizzato da diversi anni con finalità ergogeniche per migliorare la funzione sessuale maschile e i parametri seminali [4-7]. Quest’aminoacido rappresenta il substrato per l’enzima Ossido Nitrico Sintasi (NO sintasi) il cui ruolo è quello di convertire l’L-Arginina in L-Citrullina producendo come intermedio di reazione l’Ossido Nitrico (NO), un metabolita gassoso che causa vasodilatazione e migliora la funzione vascolare. Partendo da questo presupposto metabolico l’L-Arginina è stata impiegata per il trattamento dell’infertilità maschile alla dose di 16 g/die e per il trattamento della disfunzione sessuale maschile alla dose di 2,5-3 g/die [8]. L’alto dosaggio richiesto si rende necessario dal momento che la molecola è caratterizzata da un’emivita molto breve (circa 1h) e da una bassissima biodisponibilità (<1% della dose somministrata). La somministrazione orale di Arginina è difatti ostacolata dall’esteso metabolismo a cui è sottoposta la molecola [9]. Le Arginasi presenti a livello epatico espongono la quota di arginina assunta ad un importante effetto di primo passaggio che ne riduce in maniera significativa la quota disponibile per l’assorbimento. Inoltre, la generosa presenza di Arginasi a livello plasmatico, riduce ulteriormente la quota di Arginina disponibile a livello sistemico per la sintesi di NO. Inoltre, un dosaggio giornaliero così elevato, non è compliante per il paziente, sia che l’attivo venga somministrato in compresse che in polvere, oltre a causare diversi problemi a livello gastro-intestinale, con il risultato che col tempo, il paziente abbandoni la terapia.

 Un’alternativa più che valida per superare i limiti dell’L-Arginina si basa sull’impiego dell’L-Citrullina. A differenza dell’Arginina, l’amminoacido L-citrullina non è soggetto a queste forme di eliminazione sistemica e pre-sistemica, al punto che la sua somministrazione aumenta in modo dose-dipendente sia i livelli plasmatici di Arginina che quelli di Ossido Nitrico [9]. L’efficacia della Citrullina nel trattamento della disfunzione erettile è stata testata su modelli animali e in alcuni studi clinici preliminari sull’uomo, con risultati incoraggianti [10,11].

Uno studio clinico italiano del 2017 ha dimostrato come il trattamento per 1 mese con 1,5 g/die di L-Citrullina ha comportato un miglioramento del punteggio di durezza dell’erezione (Hardness Score) e del numero medio di rapporti mensili in maschi adulti affetti da disfunzione erettile lieve (Hardness score = 3). Inoltre, nessuno dei partecipanti ha registrato eventi avversi e tutti i soggetti trattati con L-citrullina hanno espresso un alto grado di soddisfazione rispetto al trattamento stesso. Gli autori dello studio hanno quindi concluso che, sebbene meno efficace dei classici farmaci inibitori della fosfodiesterasi 5, almeno nel breve termine, la Citrullina è sicura e psicologicamente ben accettata dai pazienti. Il suo ruolo nel trattamento della disfunzione erettile e di altre affezioni della sfera sessuale maschile merita dunque ulteriori ricerche [10].

Lo stress ossidativo è uno dei principali fattori che favoriscono l’instaurarsi di condizioni di ridotta fertilità. Gli spermatozoi sono particolarmente suscettibili al danno ossidativo dal momento che le loro membrane plasmatiche sono ricche di acidi grassi polinsaturi e hanno basse concentrazioni di enzimi ad azione antiossidante. Si ritiene infatti che circa il 30-80% dei casi di sub-fertilità maschile sia dovuto agli effetti dannosi provocati dai ROS a carico degli spermatozoi e al conseguente impatto negativo sui parametri seminali [12].

La Betaina è una metilammina naturale che agisce come un donatore di gruppi metile (-CH3) per convertire l’Omocisteina, molecola tossica per l’organismo, in Metionina. Diversi studi hanno suggerito che la Betaina, in virtù del suo potere antiossidante e detossificante, può avere un ruolo importante nel mantenimento della fertilità maschile [13-16].

Infine, anche il livello di stress percepito può influire negativamente sulla qualità spermatica e sulle prestazioni sessuali in generale. Diversi studi hanno mostrato come lo stress influenzi l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), portando ad una diminuzione della secrezione di Testosterone dalle cellule di Leydig e ad un aumento del rilascio di Cortisolo. Queste variazioni anomale dei livelli ormonali causano l’inibizione del processo di spermatogenesi con gravi ripercussioni anche sulla motilità e sulla morfologia cellulare [17,18]. La supplementazione di Fosfatidilserina (PS), di cui la Fosfoserina è il principale precursore biologico, si è dimostrata utile nel migliorare la risposta endocrina allo stress [19,20] grazie al suo effetto antagonista nei confronti del Cortisolo: la PS inibisce il rilascio ipotalamico dell’ACTH e di conseguenza la sintesi di cortisolo, portando ad una normalizzazione della T/C Ratio (testosterone/cortisol ratio) [19], con ripercussioni positive tanto sui parametri seminali quanto sul tono dell’umore in generale [21].

SCOPO DELLO STUDIO:

Lo scopo del presente studio osservazionale è stato quello di valutare se, in pazienti maschi adulti con alterazioni della qualità spermatica, la somministrazione di una combinazione di L-Citrullina, Betaina e Fosfoserina (FASTIGOR® – Minerva Medica Srl) da sola o in associazione con altri micronutrienti (L-Arginina, Vitamina C, L-Citrullina, Carnitina, Astaxantina, Coenzima Q10, Vitamina E, Zinco, Vitamina B6, Acido Folico, Selenio e Vitamina B12) sia in grado di migliorare i parametri seminali  con particolare riferimento al numero totale di spermatozoi, alla motilità e alla morfologia.

PAZIENTI E METODI:

Lo studio è stato condotto su 30 maschi adulti di età compresa tra i 21 e i 40 anni. All’arruolamento (T0) tutti i partecipanti presentavano un’alterazione in uno o più parametri dello spermiogramma.

Dopo la prima visita, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi:

– Gruppo A: ha ricevuto solo la specialità nutraceutica FASTIGOR® alla dose di 2 stick/die per un periodo di 3 mesi

– Gruppo B: ha ricevuto il FASTIGOR® alla dose di 1 stick/die più un’altra specialità nutraceutica a base di L-Arginina, Vitamina C, L-Citrullina, Carnitina, Astaxantina, Coenzima Q10, Vitamina E, Zinco, Vitamina B6, Acido Folico, Selenio e Vitamina B12 alla dose di 1 bustina/die per un periodo di 3 mesi.

RISULTATI:

Al termine del periodo di osservazione (T3), tutti i pazienti del Gruppo A hanno riportato un aumento significativo della concentrazione di spermatozoi nell’eiaculato; nel 26% di questi, il trattamento con FASTIGOR® è riuscito a correggere la condizione di oligospermia di partenza (Figura 1). Risultati incoraggianti sono stati ottenuti anche in riferimento alla motilità progressiva e alla morfologia, dimostrando un miglioramento complessivo della qualità dello sperma (Figura 2). Nel Gruppo B, ad eccezione del parametro relativo alla morfologia, non si sono registrati miglioramenti significativi rispetto ai valori basali (Figura 3), dimostrando come gli effetti benefici registrati siano imputabili in larga parte all’associazione L-Citrullina, Betaina e Fosfoserina (FATIGOR®).

CONCLUSIONI:

Questo studio preliminare conclude che l’associazione L-citrullina, Betaina e Fosfoserina può modulare beneficamente i parametri di qualità dello sperma e influenzare la fertilità maschile. La scarsità di studi scientifici che hanno testato integratori simili in tali condizioni e le ridotte dimensioni del campione impongono ulteriori ricerche. In futuro sono necessari più RCT con campioni più grandi e criteri di inclusione/esclusione ben definiti per testare come questi nutrienti influiscano sui parametri spermatici e sulla fecondabilità in generale.

Dott. Omero Simone  – Specialista in Urologia

BIBLIOGRAFIA

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L’INTEGRAZIONE NUTRACEUTICA NELLA GESTIONE DELLA SINDROME IPOCINETICA DA PROLUNGATA IMMOBILIZZAZIONE

Il riposo a letto e l’immobilizzazione sono trattamenti consolidati per la gestione di traumi e di patologie acute e croniche. Sebbene, l’allettamento sia importante per garantire il recupero funzionale, se prolungato oltremodo, può portare ad uno stato di disabilità ingravescente, causando problematiche anche più gravi del disturbo primario [1]. Tale condizione prende il nome di Sindrome ipocinetica da immobilizzazione prolungata e sta a definire quell’insieme di modificazioni patologiche a carico di organi ed apparati, che si manifesta come conseguenza di un periodo più o meno lungo di inattività muscolo- scheletrica. I malati cronici, i disabili e gli anziani sono i soggetti più a rischio [2]. Queste persone si trovano già di per sé in una condizione di fragilità, per cui qualsiasi ulteriore difficoltà creata dall’immobilizzazione, è causa di alterazioni funzionali importanti. Le strutture dell’apparato locomotore (muscoli, ossa e articolazioni) rappresentano il principale bersaglio della sindrome ipocinetica. L’effetto più evidente dell’immobilizzazione prolungata è la riduzione della massa (Ipotrofia) e della forza muscolare (Ipostenia): gli studi sugli effetti dell’immobilizzazione riportano una perdita della forza contrattile nell’ordine del 12% a settimana, il che significa che quasi la metà della normale forza muscolare viene persa nel giro di 3-5 settimane dall’immobilizzazione [3]. La ridotta performance muscolare determina poi nel soggetto il palesarsi di un senso di affaticamento cronico, che riduce ancora di più la motivazione del paziente al movimento, creando un circolo vizioso in cui “l’inattività genera inattività”. Anche il tessuto osseo risente degli effetti deleteri dell’allettamento prolungato: l’inattività fisica sottrae il tessuto osseo alla sua funzione di resistenza al carico, con conseguente riduzione dell’azione osteosintetica degli osteoblasti ed impoverimento della struttura e della massa ossea. L’osso va così incontro ad un progressivo processo osteopenico/osteoporotico che, se già presente (si veda gli anziani, specialmente le donne), assume dimensioni catastrofiche, causando fratture ossee, dolori, crolli vertebrali ecc [4]. Sul piano cardiovascolare, una delle complicanze più temibili dell’allettamento prolungato è la trombosi venosa profonda [1], una condizione caratterizzata da un’aumenta tendenza alla formazione di trombi, ovvero coaguli di sangue adesi alla parete vasale, che possono staccarsi, andare in circolo e ostruire una vena o un’arteria. Non vanno infine tralasciati gli aspetti neuropsicologici di un’immobilizzazione forzata: la deprivazione sensoriale indotta dall’immobilizzazione può aggravare ed accelerare i fenomeni involutivi cerebrali, favorendo lo scadimento cognitivo [5]. L’immobilizzazione forzata riduce inoltre la possibilità di relazione con il mondo esterno: la qualità delle relazioni interpersonali peggiora e il soggetto si percepisce dipendente e passivo. Questi sentimenti di designificazione e di passività emozionale possono facilmente sfociare nella comparsa di sintomi depressive maggiori [4,6,7]. Per la prevenzione e il recupero della sindrome da immobilizzazione è necessario incoraggiare il più possibile la precoce mobilizzazione del paziente, non appena le condizioni lo consentano [8-10]. Il paziente deve essere sollecitato dapprima alla postura seduta ed eretta, e successivamente al movimento ed alla ripresa delle consuete attività, eventualmente con il supporto di ausili speciali. La riabilitazione rappresenta difatti il momento fondamentale del trattamento della sindrome da immobilizzazione e ha come scopo il ripristino delle funzioni e la prevenzione dell’aggravamento della disabilità [8-10]. Per garantire un più veloce recupero funzionale è possibile associare alla terapia riabilitativa programmi di integrazione nutrizionale basati sull’impiego di sostanze naturali in grado di fornire al paziente un boost energetico esogeno, protezione cardio e cerebrovascolare e un supporto muscolare e cognitivo. La L-Citrullina, un amminoacido non essenziale isolato dal cocomero, grazie alla sua capacità di stimolare la sintesi di molecole ad alto contenuto energetico, attiva rapidamente il metabolismo basale del soggetto, migliorando le capacità di utilizzo delle scorte energetiche [11]. Inoltre, essendo il più potente precursore endogeno dell’Ossido Nitrico (NO), il principale segnale fisiologico per la dilatazione dei vasi sanguigni periferici, la L-Citrullina, è in grado di migliorare la perfusione ematica di cuore, muscoli e cervello, permettendo da un lato un miglioramento diretto delle capacità trofiche a sostengo del muscolo e contribuendo dall’altro a preservare la salute cardiovascolare, regolando la pressione arteriosa e svolgendo un’importante azione antiaggregante [12-14]. Difatti, oltre all’aspetto puramente energetico e muscolare, nella gestione del paziente lungodegente, riveste un ruolo importante anche il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. Le probabilità che un paziente allettato possa incorrere in un evento trombotico sono maggiori in presenza di elevati livelli plasmatici di Omocisteina [15,16], un aminoacido solforato il cui accumulo nel sangue determina disfunzione endoteliale e difetti della coagulazione e che per questo motivo viene ad oggi riconosciuto come un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di patologie cardio e cerebrovascolari [17-19]. La Betaina, una sostanza naturale estratta dalla barbabietola da zucchero, metabolizzando l’Omocisteina in Metionina, è efficace nel tenere sotto controllo le concentrazioni plasmatiche di Omocisteina, riducendo il rischio cardiovascolare del 5-10% [20-22]. La Betaina, inoltre, generando un effetto di risparmio sulle riserve endogene di S-Adenosilmetionina (SAMe), molecola endogena dalle note proprietà antidepressive, è utile nel trattamento degli stati depressivi che spesso si accompagnano alle condizioni di allettamento prolungato [23]. Anche la Fosfoserina, in quanto precursore biologico della Fosfatidilserina (PS), il fosfolipide più abbondante nella corteccia cerebrale dell’uomo [24], è comunemente considerata un “ricostituente” del Sistema Nervoso Centrale [25]. Integrazioni di Fosfoserina hanno difatti documentato effetti positivi sulla funzione cognitiva, migliorano le capacità mnemoniche, la concentrazione e l’apprendimento [26] e contrastando al contempo il decadimento cognitivo [27,28].

Concludendo, l’integrazione nutraceutica, associata ai programmi riabilitativi standard, può risultare un valido supporto alla gestione, spesso complessa, di questa tipologia di pazienti, velocizzando il recupero delle capacità motorie, cognitive e funzionali, senza aggravare il carico farmacologico giornaliero e senza il rischio di incorrere in spiacevoli effetti collaterali, anche sul lungo periodo.

Dott. Tommaso Valentino  – Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione

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L’INTEGRAZIONE NUTRACEUTICA COME SUPPORTO NEL TRATTAMENTO DEL DOLORE PELVICO CRONICO

La Sindrome del Dolore Pelvico Cronico (Chronic Pelvic Pain Syndrome, CPPS) è una sindrome clinica ad eziologia sconosciuta, caratterizzata da un dolore localizzato in sede pelvica e/o perineale che si può irradiare fino alla regione lombare, all’inguine, alla regione pubica e sovrapubica, al sacro-coccige e alla radice delle cosce. Perché sia considerato tale, è necessario che il dolore, sia esso costante o intermittente, duri da almeno 6 mesi e che non siano presenti i meccanismi patogenetici tipici del dolore acuto [1]. Nella CPPS il dolore si presenta infatti sordo e mal definito (assumendo i connotati di dolore “neuropatico”) e risulta frequentemente associato a disturbi urinari, intestinali, sessuali e psicologici (ansia o depressione) [2]. Il sesso più colpito è quello femminile, con un rapporto donne/uomini di 10:1 e una prevalenza nella popolazione generale che può arrivare fino ad oltre il 20% [3]. Anche gli uomini possono essere interessati da questa patologia, spesso catalogata come prostatite cronica abatterica [4]. Dal punto di vista clinico è importante distinguere una fase precoce in cui i pazienti risultano sintomatici da meno di sei mesi ed una fase tardiva caratterizzata da un più duraturo esordio dei sintomi per i quali sia stata già praticata una prima linea terapeutica senza successo. Il protocollo diagnostico è finalizzato ad escludere le forme infettive (prostato-vescicoliti batteriche) e patologie ostruttive anatomiche o funzionali (Stenosi uretrali, adenoma prostatico, dissinergia del collo vescicale). È quindi indispensabile una accurata anamnesi ed un attento esame obiettivo per la valutazione di patologie prostatiche ed il tono della muscolatura pelvica (contrazione/rilasciamento, dolore localizzato). È indispensabile escludere infezioni batteriche. Un panel infettivologico completo in PCR su secreto prostatico esibisce una elevata sensibilità e specificità. L’iter diagnostico è completato da una valutazione ecografica vescico-prostatica ed una uroflussometria, mentre la RM pelvica sarà riservata ai pazienti con pregresso trauma. È consigliabile in questa fase l’uso di questionari validati (CPSI UPOINT) per un più accurato monitoraggio dei risultati della terapia. Controverso invece è il counselling psicologico in fase diagnostica, spesso interpretato dal paziente come una “preconcetta” diagnosi di instabilità psichica. In circa il 60% dei pazienti sottoposti all’iter diagnostico appena descritto non è possibile evidenziare patologie a sicuro impatto terapeutico (infezione/antibiotico terapia ostruzione alfa litico ) e quindi la strategia terapeutica è basata sull’esperienza del Clinico. Le cause descritte tuttavia non sono sempre sufficienti a soddisfare completamente il quesito diagnostico e infatti si stima che circa il 60% dei soggetti affetti da dolore pelvico cronico non trovi una soddisfacente spiegazione a questo disturbo [6]. Se la causa può essere differente, l’eziopatogenesi è tuttavia comune ed è da ricercarsi nell’ipertono involontario dei muscoli del pavimento pelvico, come risposta della pelvi ad insulti flogistici continui. Ripetuti episodi infiammatori a carico dell’area pelvica (es. cistiti ricorrenti/croniche, endometriosi, vulvodinia, etc.), causano difatti l’iperattivazione dei Mastociti, cellule del sistema immunitario che, in condizioni fisiologiche, ricoprono il delicato ruolo di “moderatori” della risposta infiammatoria dell’organismo [7]. Se sovrastimolato, tuttavia, il mastocita si trasforma da fondamentale presidio di difesa dell’organismo, in promotore e sostenitore del processo infiammatorio in atto, moltiplicando di migliaia di volte il proprio numero e incrementando il processo di degranulazione delle vescicole contenute al suo interno, con conseguente liberazione di una grande quantità di mediatori pro-infiammatori [8,9]. In sede pelvica si viene così a instaurare una vera e propria tempesta infiammatoria che, quando coinvolge le fibre nervose pelviche, si trasforma in Infiammazione neurogenica [10].

Quest’ultima rappresenta il presupposto per l’instaurarsi della cosiddetta “Neural Axial Central Sensitization” o Neurosensibilizzazione, una condizione per la quale il cervello “interpetra” in maniera amplificata e distorta gli stimoli nervosi provenienti dall’area pelvica, per cui:

  • Stimoli che derivano da afferenze di natura sensitiva non dolorosa, sono percepiti come stimoli dolorosi (Allodinia);
  • Lievi stimoli dolorosi vengono percepiti come dolore di forte intensità (Iperalgesia);
  • Deboli stimoli propriocettivi generano sensazioni sgradevoli (Disestesia) [11].

Il trattamento della Sindrome Del Dolore Pelvico Cronico ha come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita del paziente [12]. La terapia farmacologica classica segue lo schema delle “Three A’s”, ovvero Antibiotici, Alfa-bloccanti (farmaci con azione bloccante dei recettori α1-adrenergici in grado di rilasciare la muscolatura liscia) e Antinfiammatori (sia FANS che Cortisonici) [13,14]. Del tutto recentemente tale approccio terapeutico è stato sottoposto ad un’attenta revisione critica che ne ha meglio definito indicazioni e limiti. Il Gruppo PERG (Prostatitis expert reference group) ha analizzato l’efficacia e la safety dei farmaci in prima linea supportandone l’utilizzo ma con una serie di raccomandazioni. L’utilizzo degli inibitori alfa adrenergici va riservato a pazienti con sintomi da ostruzione ed uroflussometria patologica. Inoltre in assenza di risposta la terapia va sospesa entro max 4-6 settimane. È consigliabile l’uso di farmaci uro selettivi tipo Alfuzosina o Tamsulosina. Gli antibiotici vanno adoperati come prima linea terapeutica nelle fasi precoci della malattia per non più di 2 settimane ma cicli ripetuti non sono indicati in assenza di risposta e colture negative. Ed infine, la terapia con Fans o Corticosteriodi, va attentamente monitorata per gli effetti collaterali e non deve prolungarsi oltre le 4 settimane. È consigliato l’uso del Paracetamolo. Nel dolore neuropatico si ottengono ottimi risultati con gabapentinoidi (Pregabalin o Gapantin ), antidepressivi triciclici (Imipramina Amitriptilina ), o inibitori selettivi del reuptake della serotonina (Duloxetina ). La compliance terapeutica è però molto bassa per gli effetti collaterali reali o presunti dal paziente da Psicofarmaci. In relazione a quanto esposto è evidente che la strategia terapeutica va “sartorializzata” tenendo conto deli sintomi prevalenti e della loro gravità. La strategia terapeutica del nostro Dipartimento si basa appunto sulla identificazione precisa dei sintomi in base al questionario UPOINT. Nei pazienti con ostruzione cervico-urtrale anche lieve ed associata ad alterazioni della muscolatura pelvica utilizziamo la triade alfa-litici + fisioterapia + integratori ad azione antiossidante e neurotrofica. Nelle forme con sintomatologia irritativa (pollachiuria, urgenza e dolore eiaculatorio) associata a presenza di leucociti nel secreto prostatico, utilizziamo la triade con antibioticoterapia + FANS/corticossteroidi + neurotrofici ed antiossidanti per un periodo massimo di 4-6 settimane. Nelle forme con dolore neuropatico ed in tutti i non-responder alla prima linea terapeutica utilizziamo l’associazione Duloxetina o Gabapentin associata a fisioterapia pelvica. Appare evidente che alla terapia farmacologica è quasi sempre opportuno associare le tecniche riabilitative di tipo conservativo incentrate su percorsi terapeutici estremamente individualizzati che hanno l’obiettivo di interrompere il circolo vizioso “ipertono-dolore” rendendo il paziente attivo e cosciente nel recupero di tutte le sue funzioni [15]. La psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, può essere utile per imparare a contrastare l’insorgenza di atteggiamenti ansioso-depressivi che inevitabilmente accompagnano la sintomatologia dolorosa cronica, ottenendo in tal modo una diminuzione della percezione soggettiva del dolore e quindi un minor consumo/abuso di farmaci antidolorifici [15,16]. Come già segnalato, per il trattamento del dolore pelvico si ricorre sempre più spesso anche all’integrazione nutraceutica. Antiossidanti e Neurotrofici hanno prodotto risultati incoraggianti nel trattamento della CPPS, dal momento che consentono potenzialmente di agire, oltre che sul sintomo dolore, anche sulle cause che ne sono all’origine [17]. Tra gli antiossidanti, l’Acido Alfa Lipoico (ALA) e la Superossido dismutasi (SOD) sono impiegati in ragione del loro duplice meccanismo d’azione, antidolorifico ed antinfiammatorio. Questi due potenti antiossidanti endogeni agiscono infatti contrastando l’eccessivo release locale di radicali liberi e la liberazione di mediatori pro-infiammatori dal mastocita iper-reattivo, riducendo la sintomatologia dolorosa e svolgendo al contempo un’azione antinfiammatoria a livello delle fibre sensitive periferiche dell’area pelvica [19,20]. I Neurotrofici come la N-Acetil-L-Carnitina (NALC) e la Vitamina B12, vengono invece impiegati allo scopo di risanare il danno a carico delle fibre nervose, ripristinandone la funzionalità e dunque la “normale” risposta agli stimoli nocicettivi [21-24]. Concludendo il dolore pelvico cronico è una patologia non rischiosa ma ad alto impatto sulla qualità di vita del paziente. Un corretto inquadramento diagnostico ed un approccio terapeutico multi disciplinare e sartorializzato apre per questi pazienti, spesso frettolosamente etichettati psicogeni, più ampi e luminosi orizzonti.

Dott. Maurizio Carrino  – Specialista in Urologia

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PHARMACEUTICAL CARE: LA NUOVA FRONTIERA DELLA SALUTE

La Farmacia dei Servizi rappresenta il punto di arrivo dell’evoluzione di questa professione.

In un contesto sociale sempre più smart e in continuo cambiamento, gli attori principali di questo scenario sono Farmacisti, Medici e Pazienti, che oggi più che mai hanno bisogno di uno spazio comunicativo digitale, dinamico e interattivo.

Dall’analisi delle esigenze di queste categorie nasce il nostro progetto, Medin Service, che vuole dare risposte e supporto ai Professionisti della Salute per la cura dei Pazienti.

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I BENEFICI DELLA MAGNETOTERAPIA

La magnetoterapia è una tecnica che sfrutta i benefici dei campi magnetici a scopo curativo e riabilitativo. Per capire bene come funziona, è necessario illustrare innanzitutto il concetto di campo magnetico. Se applicata sul nostro corpo, l’azione dei campi magnetici è in grado di ristabilire l’equilibrio biochimico delle cellule qualora questo sia compromesso, ripristinando la corretta funzionalità della membrana cellulare. La magnetoterapia agisce soprattutto sul sistema osseo, articolare, muscolare e vascolare. Schematizzando, ecco quali sono i principali benefici per il nostro organismo:

  • espleta un’azione antinfiammatoria
  • ha un effetto antalgico/antidolorifico
  • accelera la calcificazione delle fratture
  • aumenta l’irrorazione vascolare e la velocità di scorrimento del sangue
  • migliora la circolazione periferica
  • accelera la cicatrizzazione di ferite, piaghe, e la guarigione dei tessuti molli
  • migliora il metabolismo della cute
  • svolge un’azione antinvecchiamento dei tessuti.

I contenuti di questo articolo sono pubblicati solo a scopo informativo, pertanto non sostituiscono il parere del medico.

FONTI

F. Ambrosi, “Magnetoterapia a campo stabile”.
W. Hulke. “Magnetoterapia. Principi fondamentali ed effetti terapeutici”.

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