Il riposo a letto e l’immobilizzazione sono trattamenti consolidati per la gestione di traumi e di patologie acute e croniche. Sebbene, l’allettamento sia importante per garantire il recupero funzionale, se prolungato oltremodo, può portare ad uno stato di disabilità ingravescente, causando problematiche anche più gravi del disturbo primario [1]. Tale condizione prende il nome di Sindrome ipocinetica da immobilizzazione prolungata e sta a definire quell’insieme di modificazioni patologiche a carico di organi ed apparati, che si manifesta come conseguenza di un periodo più o meno lungo di inattività muscolo- scheletrica. I malati cronici, i disabili e gli anziani sono i soggetti più a rischio [2]. Queste persone si trovano già di per sé in una condizione di fragilità, per cui qualsiasi ulteriore difficoltà creata dall’immobilizzazione, è causa di alterazioni funzionali importanti. Le strutture dell’apparato locomotore (muscoli, ossa e articolazioni) rappresentano il principale bersaglio della sindrome ipocinetica. L’effetto più evidente dell’immobilizzazione prolungata è la riduzione della massa (Ipotrofia) e della forza muscolare (Ipostenia): gli studi sugli effetti dell’immobilizzazione riportano una perdita della forza contrattile nell’ordine del 12% a settimana, il che significa che quasi la metà della normale forza muscolare viene persa nel giro di 3-5 settimane dall’immobilizzazione [3]. La ridotta performance muscolare determina poi nel soggetto il palesarsi di un senso di affaticamento cronico, che riduce ancora di più la motivazione del paziente al movimento, creando un circolo vizioso in cui “l’inattività genera inattività”. Anche il tessuto osseo risente degli effetti deleteri dell’allettamento prolungato: l’inattività fisica sottrae il tessuto osseo alla sua funzione di resistenza al carico, con conseguente riduzione dell’azione osteosintetica degli osteoblasti ed impoverimento della struttura e della massa ossea. L’osso va così incontro ad un progressivo processo osteopenico/osteoporotico che, se già presente (si veda gli anziani, specialmente le donne), assume dimensioni catastrofiche, causando fratture ossee, dolori, crolli vertebrali ecc [4]. Sul piano cardiovascolare, una delle complicanze più temibili dell’allettamento prolungato è la trombosi venosa profonda [1], una condizione caratterizzata da un’aumenta tendenza alla formazione di trombi, ovvero coaguli di sangue adesi alla parete vasale, che possono staccarsi, andare in circolo e ostruire una vena o un’arteria. Non vanno infine tralasciati gli aspetti neuropsicologici di un’immobilizzazione forzata: la deprivazione sensoriale indotta dall’immobilizzazione può aggravare ed accelerare i fenomeni involutivi cerebrali, favorendo lo scadimento cognitivo [5]. L’immobilizzazione forzata riduce inoltre la possibilità di relazione con il mondo esterno: la qualità delle relazioni interpersonali peggiora e il soggetto si percepisce dipendente e passivo. Questi sentimenti di designificazione e di passività emozionale possono facilmente sfociare nella comparsa di sintomi depressive maggiori [4,6,7]. Per la prevenzione e il recupero della sindrome da immobilizzazione è necessario incoraggiare il più possibile la precoce mobilizzazione del paziente, non appena le condizioni lo consentano [8-10]. Il paziente deve essere sollecitato dapprima alla postura seduta ed eretta, e successivamente al movimento ed alla ripresa delle consuete attività, eventualmente con il supporto di ausili speciali. La riabilitazione rappresenta difatti il momento fondamentale del trattamento della sindrome da immobilizzazione e ha come scopo il ripristino delle funzioni e la prevenzione dell’aggravamento della disabilità [8-10]. Per garantire un più veloce recupero funzionale è possibile associare alla terapia riabilitativa programmi di integrazione nutrizionale basati sull’impiego di sostanze naturali in grado di fornire al paziente un boost energetico esogeno, protezione cardio e cerebrovascolare e un supporto muscolare e cognitivo. La L-Citrullina, un amminoacido non essenziale isolato dal cocomero, grazie alla sua capacità di stimolare la sintesi di molecole ad alto contenuto energetico, attiva rapidamente il metabolismo basale del soggetto, migliorando le capacità di utilizzo delle scorte energetiche [11]. Inoltre, essendo il più potente precursore endogeno dell’Ossido Nitrico (NO), il principale segnale fisiologico per la dilatazione dei vasi sanguigni periferici, la L-Citrullina, è in grado di migliorare la perfusione ematica di cuore, muscoli e cervello, permettendo da un lato un miglioramento diretto delle capacità trofiche a sostengo del muscolo e contribuendo dall’altro a preservare la salute cardiovascolare, regolando la pressione arteriosa e svolgendo un’importante azione antiaggregante [12-14]. Difatti, oltre all’aspetto puramente energetico e muscolare, nella gestione del paziente lungodegente, riveste un ruolo importante anche il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. Le probabilità che un paziente allettato possa incorrere in un evento trombotico sono maggiori in presenza di elevati livelli plasmatici di Omocisteina [15,16], un aminoacido solforato il cui accumulo nel sangue determina disfunzione endoteliale e difetti della coagulazione e che per questo motivo viene ad oggi riconosciuto come un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di patologie cardio e cerebrovascolari [17-19]. La Betaina, una sostanza naturale estratta dalla barbabietola da zucchero, metabolizzando l’Omocisteina in Metionina, è efficace nel tenere sotto controllo le concentrazioni plasmatiche di Omocisteina, riducendo il rischio cardiovascolare del 5-10% [20-22]. La Betaina, inoltre, generando un effetto di risparmio sulle riserve endogene di S-Adenosilmetionina (SAMe), molecola endogena dalle note proprietà antidepressive, è utile nel trattamento degli stati depressivi che spesso si accompagnano alle condizioni di allettamento prolungato [23]. Anche la Fosfoserina, in quanto precursore biologico della Fosfatidilserina (PS), il fosfolipide più abbondante nella corteccia cerebrale dell’uomo [24], è comunemente considerata un “ricostituente” del Sistema Nervoso Centrale [25]. Integrazioni di Fosfoserina hanno difatti documentato effetti positivi sulla funzione cognitiva, migliorano le capacità mnemoniche, la concentrazione e l’apprendimento [26] e contrastando al contempo il decadimento cognitivo [27,28].
Concludendo, l’integrazione nutraceutica, associata ai programmi riabilitativi standard, può risultare un valido supporto alla gestione, spesso complessa, di questa tipologia di pazienti, velocizzando il recupero delle capacità motorie, cognitive e funzionali, senza aggravare il carico farmacologico giornaliero e senza il rischio di incorrere in spiacevoli effetti collaterali, anche sul lungo periodo.
Dott. Tommaso Valentino – Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione
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